Il sole splendente nel cielo, pur nella fredda giornata di quel febbraio 1996, osservava compiaciuto quel ragazzo che, impaziente a cavallo della sua moto, aspettava il via libera dal semaforo per correre al lavoro. Io, suo padre, nel salutarlo all'uscita di casa, quasi a presagire qualcosa, gli avevo accarezzato teneramente il braccio. Ma beffarda e sorniona la sorte lo aspettava alla prima curva per calare sul banco, nella partita della vita, il suo jolly col colore nero della morte. Al segnale verde il ragazzo lanciò la sua moto, mentre il destino si concretizzava in una congestione che gli causò uno svenimento e la relativa rovinosa caduta. Samuel, quale uccello che cercava di sfuggire al suo destino, volò lontano dalla moto impazzita, ma nella ricaduta l'impatto con l'asfalto, nonostante il casco di qualità, gli provocò delle devastanti lesioni al cervello.
Al Pronto Soccorso Samuel, senza un graffio né una goccia di sangue versata, sembrava dormire, ma la porta della vita si stava chiudendo alle sue spalle ed io, suo padre, non volevo arrendermi: il mio Samuel non poteva finire così. Solo la speranza, riposta nella fede, mi consentiva di non darmi per vinto e non impazzire. In una scala della vita, scritta dalla scienza medica, che andava da 0 per le persone sane fino a 25 per le persone morte, Samuel aveva salito questi gradini così di corsa che anche il 24°, raggiunto ormai da diverse settimane, stava per essere abbandonato per tornare a ricongiungersi a Dio. Solo Lui sapeva quanta sofferenza, quante preghiere e quanta volontà era servita per poterlo fermare ad un passo dalla morte. La morte, sorniona e ghignante, aspettava il momento propizio per rapire mio figlio, ma io fortemente non volevo e lottavo contro le diagnosi mediche che non lasciavano spazio neanche alla più tenue speranza. Iniziò così per 45 giorni il calvario della rianimazione di Samuel che, in stato di coma vegetale, giaceva nel letto con due sonde impiantate nel cranio per misurare il residuo spazio rimanente per un possibile ritorno alla vita.
La situazione era impossibile e solo l'amore che nutrivo per lui mi obbligava a ripetermi ossessivamente che non poteva assolutamente finire così: il ricovero a Mozzo (BG), in un centro di riabilitazione, non migliorò la situazione che precipitò con il subentro di una paresi irreversibile alla parte sinistra del corpo e poi, il bollettino medico che sanzionò che "Solo un miracolo poteva permettergli di uscire dal come vegetale". La fede, la speranza e la volontà di riaverlo mi obbligavano a non credere alla ineluttabilità della morte, perché, solo se credi intensamente ai miracoli, a volte questi avvengono. La lotta che intrapresi contro le sentenze dei medici, che non lasciavano alcuna speranza, mi fortificava sempre di più: non volevo che venisse scritta la parola fine sulla sua esistenza.
Quando venne dimesso dall'ospedale, perché non c'era altro da fare, non mi detti per sconfitto, ma centuplicai la mia voglia di salvarlo. La presenza asfissiante alimentata dall'amore, il continuo stimolo con tutti i mezzi possibili e la presenza degli amici non gli permisero di salire l'ultimo gradino che ancora mancava per raggiungere l'infausta vetta. La morte, come si fosse stancata di questa partita, allentò un poco la sua presa ed improvvisamente incominciò a ritornare la luce del sole.
Alcuni episodi che i dottori dichiararono "inspiegabili" ma che io definivo "prodigi" incominciarono ad accadere. Il 21 giugno alle 20.30 mi apparve un arcobaleno, dipinto in un cielo sereno, ed ebbi la sensazione che una voce mi dicesse che questo era un ponte che univa due isole distanti e che ridava loro la vita. Alle 22.30 una telefonata mi confermò che due ore prima Samuel aveva aperto gli occhi e salutato i presenti ripiombando in seguito ancora in coma. Questo mi confermò che il viaggio di ritorno era iniziato e ciò mi riempì di energia positiva e di nuova determinazione.
Accanto a mio figlio non mancava mai il suo amico del cuore, Daimon, che spesso mandavo a darmi il cambio in rianimazione durante quei 45 giorni in cui Samuel era rischio di vita, e solo Dio sa quanto ciò mi costasse convinto che la sua presenza gli desse uno stimolo diverso dal mio. Il 6 agosto Daimon passò a salutarlo prima di partire per la Spagna, alla sera ci accorgemmo che Samuel voleva dirci qualcosa: dapprima mormorò parole incomprensibili poi, su nostra insistenza, riuscì a farsi capire e pronunciò: "Domani si parte... domani si parte". Queste parole segnarono l'inizio di una nuova sfida. Samuel aveva dimostrato di voler tornare alla vita, di saper tenere ben salde le redini che lo richiamavano a questo mondo.
Il futuro era un mistero, non potevo sapere come Samuel sarebbe tornato alla vita e quali sarebbero state le sue condizioni. Drammatico fu il periodo che seguì il risveglio dal come vigile, quando, a causa della sua aggressività, arrivò addirittura a rompere, con un calcio, il naso ad una signora che lo accudiva. Per contenerlo e difenderci dalla sua violenza dovevamo mettergli un guantone sulla mano, legargli con dei lacci il braccio e gamba destra. Lo sconforto e la disperazione furono tremendi, ma la voglia di vivere era tale che anche quella volta tornammo a veleggiare nel cielo illuminato dal sole che era tornato a risplendere. Per poterlo seguire meglio mi licenziai dall'azienda presso cui lavoravo, potendo così dedicare tutto il mio tempo al recupero di Samuel. Successivamente lo accompagnai nei maggiori centri specializzati a Ferrara, Brescia e Fontanellato di Parma; ne seguii, giorno per giorno, i progressi e ogni volta fu come una nuova rinascita. Samuel tornò a riaprire gli occhi sul mondo, senza alcuna spiegazione scientifica vide meglio di prima: ora gli mancano solo due diottrie, prima gliene mancavano quattro. Nell'agosto '98, in un ristorante di Cesenatico, volle assolutamente sedersi su una sedia e, nonostante la diagnosi di paresi irreversibile e quasi 3 anni di carrozzina, si alzò in piedi e, a fatica, ma con determinazione, iniziò a camminare. La carrozzella era già un ricordo quando a Brescia, Samuel affrontò l'operazione al braccio sinistro: si trattava di operare l'osso del gomito e poi agire sui tendini, ritenuti atrofizzati dalla paralisi. L'intervento doveva durare più di tre ore, io ero nella cappella dell'ospedale a pregare, una suora mi rincuorò e mi invitò a ritornare in reparto nonostante mancassero ancora due ore al termine previsto. Rientrando in camera un dottore mi informò che l'operazione era terminata e che i tendini non erano stati trattati in quanto, nonostante tre anni di paresi, essi non erano atrofizzati.
Ormai, come un aquilone, mi libravo nell'aria orgoglioso della gioia che trasmettevo a quelli che vedevano questo miracolo anche se, ogni tanto, una tromba d'aria violenta ci trascinava a terra e dovevamo ricercare immediatamente una corrente ascensionale che ci riportasse in quota.
Grazie a ciò sono riuscito a riportarlo ad una qualità di vita insperata, sì, è vero, sono innamorato di Samuel, vivo per lui, lavoro per lui, respiro per lui. Non avrei mai pensato che si potesse voler bene ad una persona in modo cosi profondo. E lui, attaccato con la disperazione, a questo mondo, ricompare dal cono d'ombra dell'eclisse totale di sole che sta finendo. Il suo sorriso e la sua voglia di vivere, risplendendo di luce propria, fanno ombra al sole stesso e, grazie all'aiuto di tutto e di tutti, cerca di ritornare ad un livello di vita che sia degno di tale nome.